Non è Dubai

Non è Dubai
a cura dell’Arch.Vilma Torselli
"...... Era la prima volta che venivo a Trude, ma conoscevo già l’albergo in cui mi capitò di scendere; avevo già sentito e detto i miei dialoghi [……] altre giornate uguali a quella erano finite […….]. Perché venire a Trude? Mi chiedevo. E già volevo ripartire.
- Puoi riprendere il volo quando vuoi, - mi dissero, - ma arriverai a un’altra Trude, uguale punto per punto, il mondo è ricoperto da un’unica Trude che non comincia e non finisce, cambia solo il nome dell’aeroporto”.
(Italo Calvino, "Le Città Invisibili", 1972)

Tra le realizzazioni che Milano esibirà ai previsti 20 milioni di visitatori che la raggiungeranno in occasione dell’Expo del 2015, senz’altro una delle più grandiose sarà Citylife, faraonico quartiere urbanistico edificato nell’ambito di un progetto di radicale riqualificazione non solo dell’area della Fiera (ben 365.748 mq di superficie), trasferitasi nel polo di Rho-Pero, ma dell’intera città di Milano.
Affidata al genio creativo di un manipolo di archistar, Zaha Hadid, Arata Isozaki, Daniel Libeskind e Pier Paolo Maggiora, Citylife costituirà una sorta di enclave urbanistica fortemente tipizzata secondo le tendenze della moderna architettura globalizzata, caratterizzata non più da legami di continuità con le culture locali, con il luogo geografico e con il contesto territoriale o urbano, ma da una discontinuità indifferente alla tradizione e ad ogni requisito etico, dove l’etimo ethos sta per costume o uso.
Dimenticato il piatto skyline di città di pianura, le pesanti strutture romaniche, la grevità delle argille lombarde, le modeste elevazioni di un’architettura padana che fatica a staccarsi dal suolo, Citylife ospiterà snelli e svettanti grattacieli altamente tecnologici dalle scultoree forme di grande impatto iconico, emergenze puntiformi che non aspirano a mettersi in relazione con l’intorno ambientale, al quale si contrappongono nel nome della loro proterva singolarità, in assoluta autoreferenzialità.
Citylife sarà l’esempio di come, lontana dalla storia, dalla memoria, dai contenuti simbolici e psicologici sedimentati nel tempo, dalle interconnessioni con la comunità locale, l’architettura contemporanea sempre più artisticizzata si ibridi con l’arte visiva, rivendicando la stessa libertà di linguaggio e l’evasione da ogni dogma funzionalista per aspirare alla creatività pura.

Adolf Loos scriveva che l’architettura non può essere, a differenza dell’opera d’arte, “una faccenda privata dell'artista …… messa al mondo senza che ce ne sia bisogno”, ma da allora è passato quasi un secolo ed oggi, nell’epoca dell’interdisciplinarità, consce del fatto che “il loro seme comune è progettare un pensiero visualizzato” per usare parole di Angela Vettese, arte e architettura si scoprono sempre più “gemelle per molti versi identiche”, seppure separate alla nascita.
E come nell’arte moderna, anche nell’architettura di oggi il protagonismo dell’artefice prevale sul reale valore dell’opera, che ha in sé stessa il significato unico ed ultimo, non integrabile a nessun luogo e a nessuna cultura. Questa architettura narcisistica che pretende di parlare ai ‘cittadini del mondo’ usando un linguaggio sovra-culturale che, per voler piacere a tutti, risulta necessariamente generico, come l’arte visiva si regge sull’eccentricità formale, sulla decontestualizzazione, sull’episodicità, sulla più sbrigliata fantasia, quand’anche rivendicando complesse quanto fumose giustificazioni teoriche.
Ne derivano “opere uniche” , come scrive Marc Augé, “di una singolarità che si pone come estranea al contesto locale e che genera un fenomeno turistico planetario in cui le persone si muovono non verso le città, per una loro specificità, ma verso la singolarità dell'operato di artisti-architetti”.

Umanità in viaggio alla perenne ricerca di un altrove ideale, geografico o psicologico, i visitatori dell’Expo verranno a Milano per vedere il museo di Libeskind o il grattacielo di Hadid, e dopo qualche tempo neppure ricorderanno se quella strana struttura sbilenca, quel curioso edificio a forma di bidet, quei giganteschi ‘oggetti urbani’ in un paese dei balocchi totalmente artificiale e così poco padano erano in Italia o a Dubai, a New York o a Honk Kong.
O a Trude.
Milano/Dubai, cambia solo il nome dell’aeroporto.