Bernardo Bertolucci, per SLIDE Radio Cinema incontra il Premio Oscar


Ritorno al cinema per
Bernardo BertolucciPer Slide, Radio Cinema incontra il regista Premio Oscar
di Silvio Grasselli – Radio Cinema / Slide Italia


Ci siamo quasi, non manca molto ormai. Appena un anno fa sarebbe stato impensabile, e invece l’11 maggio è previsto il ritorno sul grande schermo di Bernardo Bertolucci con Io e te, nuovo lungometraggio le riprese del quale si sono concluse a Roma, a pochi metri dalla residenza del regista, pochi giorni prima della fine dell’anno scorso.
Il film segna l’inedita collaborazione con lo scrittore Niccolò Ammanniti. L’aneddotica vuole che, dopo aver letto un paio di romanzi del suddetto, Bertolucci si sia trovato fra le mani l’ultima fatica del non più giovane autore romanziere: letto in un paio d’ore sull’aereo per New York - dove una personale sul suo cinema attendeva il regista presso il prestigioso MOMA -, Io e te ha subito colpito la fantasia di Bertolucci al punto da spingerlo a decidere di trarne il film del ritorno all’attività. Trama del romanzo a parte, del film si sa ancora relativamente poco. Tutto girato nello studio di un artista romano – Sandro Chia - trasformato in una cantina, è affidato a un cast composto, in essenza, da quattro interpreti, due post-adolescenti e due adulti. La coppia dei genitori avrà corpo e fattezze di Sonia Bergamasco e Pippo Delbono, mentre per i due fratelli protagonisti – intorno ai quali si sviluppa in realtà il grosso della vicenda – Bertolucci ha scelto personalmente due esordienti: Jacopo Olmo Antinori – vero interprete principale del film – e Tea Falco, fotografa e videoartista alla prima esperienza da attrice. Ancora una volta dunque lo sguardo fisso sul passaggio dalla prima giovinezza alla prima maturità della persona e ancora una volta un film “calustrofilo” (la definizione è di Bertolucci), per la prima volta così perché più facila da dirigere dalla sedia a rotelle sulla quale il regista è costretto da anni ormai.


Che cosa l’ha colpita del romanzo di Ammanniti?
Prima di tutto la storia: io non ho capacità di resistenza quando qualcuno mi racconta di un giovane che sta crescendo. C’è poi un fatto importante per me: che si tratta di una storia che si svolge tutta in un ambiente, un po’ come è già successo per L’assedio, il film che ho girato prima di questo, nel 1998.

In questo film – come in molti altri della sua filmografia – la musica torna ad avere un ruolo importante.
In quasi tutti i miei film ci sono momenti in cui i personaggi ballano. Proprio nei primissimi film – quegli degli anni Sessanta e Settanta, era una specie di feticcio quello del momento del ballo. Le scene di ballo mi sono sempre venute bene. Non che abbia mostrato a Maria Schneider e a Marlon Brando come dovevano ballare il tango. I momenti di musica ti permettono di dire molto di più di quanto non riesci a fare con la narrazione, i dialoghi. I momenti di musica sono degli spazi poetici in cui ci si può attardare. In questo film si tratta di una parte fondamentale: il momento in cui fratello e sorella si abbandonano l’uno all’altro, si accettano, si riconoscono.

Come ha scelto i due giovani protagonisti?
Io sono estremamente aperto a quello che porta la realtà. Le caratteristiche dovevano essere che lui doveva aver quattordici anni e lei ne doveva avere dieci di più. Per tutto il resto aspettavo che venisse da loro dagli attori: ho bisogno d’incuriosirmi del segreto che c’è nelle persone che incontro. Nella costruzione dei personaggi ho cercato molto nei misteri nascosti di questi due ragazzi.

Cosa la interessa così tanto degli adolescenti?
Cito Rimbaud: “non siamo tanto seri quando abbiamo diciassette anni e dei tigli verdi sulla nostra passeggiata”. Questo m’interessa degli adolescenti: sono in continuo cambiamento, in continua crescita e questo per me è irresistibile, un materiale umano che devi acchiappare in quel momento se no lo perdi. Il cinema qualche volta riesce in questo compito così difficile.

Qual è invece il ruolo degli adulti in questo film?
Forse quello di far sentire più forte la solitudine del protagonista che finge di organizzarsi una settimana bianca e invece si nasconde, si ritira in cantina, senza però aver previsto l’arrivo della variabile impazzita, la sorellastra, tossica e portatrice di “cose” che lui non ha mai conosciuto prima.

Si è sentito parlare del dietrofront della produzione rispetto alla scelta di girare questo film in 3D. Che cosa è successo veramente?
Magari! Se la produzione mi avesse detto che non si poteva girare in 3D, sarei stato piùm tranquillo, avrei potuto sempre pensare che fosse colpa della produzione. Invece no, sono io che ho fatto dei provini in 3D a Cinecittà e mi sono reso conto che il processo delle riprese – il momento per me più importante nella produzione di un film perché è anche quello che mi diverte di più – era incredibilmente rallentato, messo in pericolo, il mio ritmo di lavoro ostacolato e reso impossibile. Avevo una grande curiosità anche rispetto al digitale. Ma anche in questo caso, dopo aver messo alla prova la tecnologia, sono rimasto deluso e contrariato: io non sono abituato a una definizione così diabolicamente perfetta, che alla fine riccia di diventare la cosa più importante del film. Io per tanti anni ho cercato proprio quella definizione, adesso che mi viene offerta su un piatto d’argento la fuggo. Alla fine ho girato in pellicola 35mm. Si cambia idea nella vita.