Storia di un giudice. Nel far west della 'ndrangheta

Storia di un giudice. Nel far west della 'ndrangheta
a cura di Luca Capriotti - Rubrica a cura di Sololibri.net
Vorremmo fosse un romanzo o una storia a lieto fine. Ma “Storia di un giudice. Nel far west della ‘ndrangheta” di Francesco Cascini, pubblico ministero in Calabria (Locri) fino al 2001, è spietatamente reale. Il libro, edito da Einaudi nel giugno 2010, ci accompagna per vicoli e scorci mozzafiato di bellezza violenta, come sanno fare solamente certi abitanti del luogo in città straniere. E scopriamo la ‘ndrangheta, l’associazione degli uomini valorosi, economia sommersa e legale sempre più florida capace di fatturare milioni di euro, implacabile e sanguinario antagonista dello stato di diritto, antistato che invade lo stato, combattendolo sul territorio e prendendone il posto, contrastato solo da pochi PM, gli ultimi in graduatoria, i più giovani.

Il pubblico ministero Cascini, all’epoca ventiseienne, indaga e scopre trame. Mesi e mesi di lavoro per cercare di colpire gli interessi dei clan, di muoversi al di là della scia di sangue lasciata dalle faide interminabili, per giungere a toccare il cuore economico mostruosamente abnorme dell’organizzazione e sentirne i battiti dei flussi di denaro. Nello stesso tempo, tenta disperatamente di salvare quotidianità, relazioni, rapporti di amicizia, senza lasciarsi murare vivo dentro la cappa di paura e silenzio che ovunque vince gli ideali e fiacca la resistenza dello stato.

Il problema di questo libro, se può essere mai un problema, è che racconta la verità. La verità capovolta dell’eterna lotta di Davide e Golia, che si conclude sempre in realtà con l’ineluttabile, l’inevitabile vittoria del più forte, che non è mai lo stato, nè il singolo servitore dello stato lasciato solo. E inizia la catabasi, che non è solo discesa, ma frana verso la paura e il senso di inutilità. Si apre una voragine dentro lo spegnersi ad una ad una di tutte le luci, di tutte le speranze, tanto che le membra diventano più molli, inerti, incapaci di lottare contro spire inestricabili, vittime di un fato che troppi concorrono a volere ineluttabile.

Sigillo sull’ultima pagina è l’eterna legge del più forte: a nulla valgono la serenità ritrovata del protagonista e il suo nostalgico ritorno in Calabria dopo tanti anni di assenza di fronte alla sensazione lancinante che non sia un romanzo a lieto fine, che il nostro eroe che vorremmo con tutte le nostre forze vincitore, alla fine si dia alla fuga a gambe levate, lasciandoci in mano soltanto un bel po’ di speranze in meno. Il problema di questo libro è che dà ragione profondamente a Fabrizio De Andrè, nel celebre testo della canzone “Don Raffaè”: “Prima pagina, venti notizie, ventuno ingiustizie e lo Stato che fa? Si costerna, s’indigna, s’impegna poi getta la spugna con gran dignità.”