Giorgio Scimeca denunciò il "pizzo'
Il condannato sconta la pena e apre l'attività di fronte a chi l'ha denunciato.
"L'estorsore mafioso, ora mio concorrente!"

La storia non è nuova. Risale ormai a qualche anno fa. Ma sono cose che non si dimenticano, anzi devono essere ricordate. Giorgio Scimeca, nel territorio di Caccamo in Sicilia, dopo alcune vessazioni ha deciso di denunciare i suoi estortori, con il risultato che l'estorsore è stato arrestato e condannato a quattro anni di carcere in primo grado. Alla fine la condanna è stata ridotta ad un anno e due mesi. Oggi a pena scontata, il condannato è in libertà e una volta libero, diventa concorrente del Scimeca aprendo un bar proprio vicino a quello di colui che l'ha denunciato.
Ne parlò al Maurizio Costanzo Show e ad oggi, pur non avendo più subito tentativi di estorsione, Giorgio continua a subire piccole pressioni che comunque nel quotidiano lasciano il segno.
L'infame, l'amico degli sbirri, quello da evitare. Ma oggi, grazie anche al sostegno dell'Addiopizzo questo non è più un caso isolato eccezionale. Anzi il caso di denuncia sta diventando la regola, confermando che le cose sono cambiate.

La mafia esiste ancora?
La mafia non si sente, non si vede ma ancora c'è. Nessuno bussa alla porta chiedendoti il pizzo, la cosa è molto più sottile e sfumata. Qualcuno viene e ti dice che può aiutarti nel caso qualcuno voglia bruciarti il negozio, facendoti capire che dietro un compenso periodico, quell'aiuto può esserti comodo.

Il primo a denunciare, è stato quello che si può ritenere un icona, un esempio, qualcuno da imitare : Giorgio Scimeca. All'inizio si trova amicizia e aiuto solo nelle forse dell'ordine. Poi è arrivata l'associazione di Addiopizzo e tante persone che offrono solidarietà e sostegno.

Ecco la lettera di Giorgio che la redazione di Slide ha ricevuto dopo la nostra dichiarazione di solidarietà nei suoi confronti.

Ciao,
sono davvero commosso di aver ricevuto tantissimi attestati di stima e solidarietà, non mi aspettavo di ricevere cosi tante e-mail da non riuscire a contarle, mail piene di parole confortanti e rassicuranti che mi inorgogliscono e mi danno ancora più forza per andare avanti nella mia attività.
Sto cercando di rispondere a tutti nel più breve tempo possibile, ma vi assicuro non è facile perché siete davvero tanti, e ancora ora continuate ad aumentare. Questa lettera è un modo per ringraziarvi tutti, anche se non mi sembra abbastanza, per chi come voi , anche non conoscendomi si è preso la briga di scrivermi. Proprio per questo vi dirò sin d’ora che mi farebbe piacere continuare a sentirmi con tutti voi.
Vi ringrazio veramente di cuore, perché con le vostre parole mi dimostrate che la strada che ho intrapreso non è un percorso solitario. Oggi ho la consapevolezza che tutti insieme si può fare tanto per cambiare questa società malata, e voi in primis, con questa sensibilità e questa attenzione, siete il motore di tale cambiamento. E proprio grazie a voi che molti imprenditori come me hanno deciso di denunciare il pizzo, perché la Sicilia e l’ Italia tutta, sono terre fatte per la stra-grande maggioranza di persone oneste che lavorano e vivono la loro vita nella legalità.
Per chi ne volesse sapere di più sulla nostra vicenda, vi allego la nostra storia raccontata da mia sorella Nicoletta, la più piccola della famiglia, all’ epoca appena sedicenne ed adesso perno centrale della nostra pasticceria.
Come avete visto la nostra attività a seguito delle ormai note vicende, si è trasformata in una pasticceria, che anche grazie all’ associazione ADDIOPIZZO ed all’ iniziativa del consumo critico si sta ingrandendo e riesce a portare i nostri dolci in tutta Italia per far assaggiare un pezzo di Sicilia onesta a tutti coloro che ne avessero voglia.
Vi invitiamo a seguirci sul nostro sito www.pasticceriascimeca.it, sito ancora in allestimento, e prossimamente su facebook e twitter.
Per ulteriori informazioni chiamateci al 333/3570302
Grazie ancora per aver reso questo giorno indimenticabile.


LETTERA DI NICOLETTA SCIMECA, SORELLA GIORGIO.
Sono la più piccola di tre figli, i miei fratelli si chiamano Giorgio e Giuseppe. La nostra è una famiglia abbastanza normale, nata e vissuta a Caccamo, questo piccolo paese alle pendici di monte San Calogero, non lontano dalle Madonie. Mio padre era un operaio della Fiat di Termini Imerese in cassa integrazione, mia madre casalinga. Quando abbiamo finito la scuola dell’obbligo, noi figli, non avendo voglia di continuare gli studi, pensavamo di dover emigrare per forza, come fanno tanti ragazzi come noi qui. Caccamo non è un brutto paese, ma offre davvero poco a chi ci abita. Anzi, il paesaggio è meraviglioso: venendo dalla strada statale, soprattutto verso il tramonto, lo spettacolo della vista del lago artificiale lascia a bocca aperta. Ma tutto questo a dei ragazzi ovviamente non può bastare. Il week-end andiamo tutti a Termini o a Palermo per divertirci, in paese non rimane quasi nessuno. Nonostante questo, il fatto che la nostra sia una famiglia molto unita, ci impediva di lasciare Caccamo definitivamente in cerca di lavoro. Nel gennaio del 2001 io e i miei fratelli, dietro insistenza dei miei genitori (soprattutto di mio padre) decidemmo di non andar via da questa splendida terra e investimmo tutti i risparmi di famiglia in una piccola attività di intrattenimento e ristorazione, una sala giochi per crearci una possibilità di lavoro a casa nostra e dare un posto di ritrovo pulito ai ragazzini di Caccamo. Noi ovviamente non avevamo nessuna conoscenza del settore, ma gli affari iniziarono ad andare veramente bene. Eravamo felici e anche i nostri genitori collaboravano nel locale. Si stava realizzando per noi proprio un gran bel sogno. Forse troppo bello per essere vero! Nel gennaio del 2004 un ragazzo, un cliente, uno insomma del posto decise che da questo sogno ci dovevamo svegliare. Venne da mio fratello Giorgio, se lo chiamò a parte e gli disse chiaramente che il nostro locale pestava i piedi a “gente grossa” di Palermo e che, per farli stare buoni, dovevamo fargli un regalo di quattrocento euro. Raccomandò a Giorgio di non dire niente a nessuno della cosa, perché altrimenti saremmo saltati tutti in aria, noi con il nostro locale e lui per avere fallito nella mediazione. Invece, per quanto siamo attaccati in famiglia, tornando a casa Giorgio ci raccontò subito tutto. Non sapevamo che fare, ma di pagare non ne avevamo la minima intenzione. Parlammo con il maresciallo dei Carabinieri del paese per denunciare il fatto, e quello predispose tutto per la cattura dell’estorsore, che venne arrestato quando, tre giorni dopo, tornò nel locale per ritirare la cifra richiesta. Sembrava tutto finito, ma il duro iniziò proprio allora. Dopo la denuncia, infatti, per la nostra famiglia iniziò una nuova vita, un nuovo modo di vivere e di vedere le cose. Perché iniziammo a chiederci: «E adesso? Cosa si fa?». I carabinieri non ci facevano mancare la loro vicinanza, iniziarono una discreta sorveglianza sulla nostra famiglia, ogni sera a chiusura ci riportavano a casa, era solo con loro che si parlava di quanto era accaduto. Della gente del paese nessuna traccia. Arrivò in fretta la stagione calda, i primi bagni, il primo sole e pian piano il locale si svuotò. Arrivò anche la prima udienza del processo e mio fratello Giorgio fu chiamato a testimoniare, a ripetere stavolta davanti al giudice e al suo estorsore quello che aveva detto in caserma. L’aula del tribunale era molto piccola, ma piena di gente. Noi ci sentivamo così tanto soli! L’aula era piena di gente vicina al mio estorsore, che continuavano a ridere con l’aria quasi di vittoria. E noi diventavamo sempre più piccoli. Fino ad allora non avevamo mai raccontato in paese cosa avevamo fatto, un po’ ce ne vergognavamo. A chi ci chiedeva cosa fosse successo, perché l’estorsore fosse stato arrestato davanti al nostro locale, rispondevamo che forse era seguito da tempo e che noi non ne sapevamo
nulla. Quel giorno, invece, l’edizione locale del “Giornale di Sicilia” riportò la notizia a grandi lettere e così, in poco tempo, tutti in paese vennero a conoscenza della verità. Nel frattempo l’estorsore fu condannato a quattro anni di carcere. A quel punto iniziò una cosa strana a casa nostra: un via vai di persone, conoscenti, parenti che vennero a trovarci per convincerci che avevamo sbagliato, che non era quella la strada da seguire, che ci saremmo potuti rivolgere a qualcuno per risolvere il problema in un’altra maniera, senza denunciare. Noi, giustamente, entrammo in una gran confusione. Il locale non lavorava più: si continuavano a organizzare serate, ma la gente era sempre poca e quella poca che frequentava, veniva allontanata dalle continue liti che nascevano all’interno, sempre a causa delle solite persone. In giro si iniziò a diffamare la nostra attività, molti dicevano che qui si spacciava. La decisione di mollare allora era quasi presa, perché davvero avevamo perso le speranze e la fiducia su quel lavoro e su quella gente. Tutti, ma proprio tutti, ci avevano voltato le spalle. La nostra non era più vita, ma una lotta continua! Un giorno però, era il 2005, durante una partita del Palermo vidi uno striscione allo stadio con la scritta “Uniti contro il pizzo” e mi incuriosii. Il giornale, il giorno dopo, riportò la notizia con un indirizzo e-mail di queste persone misteriose, i ragazzi di Addiopizzo, che da un po’ di tempo attaccavano in giro per Palermo degli adesivi con su scritto “Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”. Decisi allora di inviare un messaggio, una richiesta di aiuto, ma i ragazzi non mi risposero subito. Entrai in agitazione, perché avevo fatto tutto d’istinto, senza dire niente alla mia famiglia e adesso avevo paura di chi avrebbe potuto leggere quella mail. Controllavo la posta quasi ogni ora per vedere se avessi ricevuta una risposta. Poi, finalmente arrivò un messaggio con scritto: «Ciao, mi chiamo Vittorio e siamo disposti a venire a Caccamo ad ascoltare la vostra storia». Per il comitato era la prima volta che un commerciante si rivolgesse a loro. Per l’arrivo di questi ragazzi da Palermo, preparammo dei dolcetti e qualcosa da bere. Quando giunsero, erano una ventina, Giorgio iniziò a raccontare la nostra storia. In testa c’era Ugo – ancora me lo ricordo – con dei grossi boccoli biondi che uscivano da un cappello tutto colorato. Non posso assolutamente dimenticare quell’immagine, perché quella fantastica domenica di marzo del 2005 fu il giorno della “rinascita” della nostra famiglia. I ragazzi ci salutarono con affetto, dicendoci «Bravi! Complimenti! Avete fatto la cosa giusta. Noi siamo con voi», cioè tutto il contrario di quello che ci dicevano ogni giorno le persone a noi più vicine. Da quel momento in poi non fummo più soli. Avevamo in programma di organizzare una festa e chiedemmo una mano ad Addiopizzo, chiedendo di venire e portare qualche amico con loro. Ma non ci aspettavamo che, pochi giorni dopo, riuscissero a portare più di duecento persone a Caccamo da Palermo. Il locale era pieno, la roba finì in pochissimo tempo e svuotammo i magazzini. È chiaro che la forza che ci diede quel gesto ci convinse a rimanere, a continuare a investire in Sicilia. Ma l’aiuto che io e la mia famiglia ricevemmo da Addiopizzo non si limitò solo a questo. Grazie a loro tutti noi conoscemmo, per la prima volta, le leggi, perché ci spiegarono la legislazione a favore di chi denuncia e, inoltre, quando arrivarono le altre fasi del processo, nell’aula del Tribunale, stavolta eravamo noi a ridere, perché dalla nostra parte c’erano decine di ragazzi con la maglia di Addiopizzo al nostro fianco. Attraverso un piccolo contributo dello Stato, decidemmo di lanciarci in una nuova avventura imprenditoriale e di aprire una pasticceria. Anche stavolta, come qualche anno prima, non avevamo esperienza di questo lavoro, ma non demordemmo. Oggi i nostri prodotti sono conosciuti e molto apprezzati anche oltre lo stretto, grazie a Addiopizzo: questo è il secondo anno che partecipano alla
Fiera “Fa’ la cosa giusta!” a Milano. Siamo poi stati anche ospiti di Maurizio Costanzo e diversi giornali hanno parlato della nostra storia. Ora non abbiamo più paura di parlarne, perché abbiamo capito che denunciare è una cosa giusta. A distanza di otto anni